Trattamento medico arbitrario: stop alle incriminazioni per omicidio preterintenzionale
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 14 marzo 2008 n. 11335 affronta funditus la materia del consenso informato in ambito medico nonché delle conseguenze penali in capo al sanitario in caso di decesso del paziente.
Per quanto concerne la questione del consenso il Giudice Nomofilattico conferma l’impostazione secondo la quale “dalla autolegittimazione dell’attività medica non può trarsi la convinzione che il modico possa al di fuori di taluni casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all’art. 54) intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente”. In sostanza, “la legittimità di per sé dell’attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce un presupposto di liceità del trattamento medico chirurgico”. Il consenso del paziente, dunque, non costituisce ipotesi di “consenso scriminante” ex art. 50 c.p. ma il presupposto per l’esercizio di una attività, quella sanitaria, avente diretto fondamento nell’ordito costituzionale (artt. 2, 3, 32 Cost.). Esso “asserisce alla libertà morale del soggetto e alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost.” . Il consenso informato ha come contenuto concreto “la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale ( v. Cass. civile, Sezione III, 4 ottobre 2007, n. 21748). Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall’art. 32 Costituzione (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di disciplina della relazione medico malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario”.
L’importanza del consenso del paziente per la salvaguardia di siffatti beni costituzionalmente rilevanti impone che sia sottoposto a stringenti requisiti di validità. In particolare, il consenso, per assumere il crisma della libertà, deve essere informato “cioè espresso in seguito ad una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l’indicazione della gravità degli effetti dell’intervento”. Ne deriva la insufficienza di moduli prestampati elaborati in forma generica a dimostrare “l’avvenuta consapevolezza del destinatario consenziente”.
Particolarmente interessanti sono le conclusioni dei Giudici di legittimità in ordine alla configurabilità del reato di omicidio preterintenzionale nel caso di decesso di un paziente vittima di un trattamento medico arbitrario perché effettuato in assenza di consenso o in presenza di un consenso invalido.
La sentenza de qua è importante perché segna il definitivo abbandono del cd. orientamento “massimo” (dal nome dell’imputato in una nota sentenza del 1992) secondo il quale “il medico chirurgo, il quale, in assenza di necessità ed urgenze terapeutiche, abbia sottoposto il paziente ad un intervento operatorio di più grande entità, rispetto a quello meno cruento e comunque di lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da questi consentito, commetterebbe il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponderebbe (addirittura) del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni sia derivata la morte (v. in questi termini, Sezione V, 21 aprile 1992, Massimo)”.
Suddetta tesi (già sottoposta a serrata critica dalle sentenze “Volterrani” e “Barese” nonché dalla maggior parte dei Dottori) non è condivisibile perché “per configurare l’omicidio preterintenzionale sarebbe pur sempre necessario che il reato di lesioni volontarie sia stato commesso con il dolo diretto intenzionale (“atti diretti a commettere…”): ciò che è francamente insostenibile nei confronti di un sanitario il quale, salve situazioni anomale e distorte (sulle quali v. infra), si trova ad agire, magari erroneamente, ma pur sempre con una finalità curativa, che è concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni ricostruito nei termini di cui si è detto. In altri e decisivi termini, deve escludersi l’omicidio preterintenzionale proprio perché non è possibile sostenere che il medico, il quale agisca in assenza di consenso espresso del paziente, sia mosso dalla consapevole intenzione di provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa e, quindi, dalla consapevole intenzione di realizzare “atti diretti a” commettere il reato di cui all’articolo 582 c.p.”.
Si riporta il testo della sentenza.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE – SENTENZA 14 marzo 2008, n.11335 – Pres. Marini – est. Piccialli
G.A., nella qualità di parte civile, il Procuratore della Repubblica e il Procuratore generale di Roma propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale il Gip presso il Tribunale di Roma dichiarava non luogo a procedere nei confronti di H.C. in ordine agli episodi relativi ai punti 1,2, 5, 7, 8 e 10 a lui contestati con il capo a), perché qualificati i fatti come previsti e puniti dall’art. 590 c.p, l’azione penale non doveva essere iniziata per mancanza di querela, nonché non luogo a procedere in ordine agli episodi di cui ai punti 6 e 9 del suddetto capo a) perché non punibile ex art. 50 c.p.; non luogo a procedere nei confronti di H., C., L.C., I., M., L., D.A. e A. in ordine ai reati loro ascritti ai capi b), d) ed e) perché il fatto non sussiste
I sanitari erano stati chiamati a rispondere dei reati in questione in qualità di medici chirurghi presso la IV Divisione di Chirurgia dell’ospedale San Giovanni di Roma ove le persone indicate in atti nel periodo 1999 – 2001 erano state ricoverate e sottoposte ad intervento chirurgico.
Il procedimento aveva preso l’avvio da un esposto presentato il 13.9.2000 da un medico chirurgo presso la predetta Divisione con riferimento a 14 casi, al quale si aggiungeva una ulteriore denuncia sottoscritta nell’ottobre del 2002 da quattordici medici del medesimo ospedale.
All’esito dell’udienza preliminare, il Gup accoglieva solo in parte l’impostazione accusatoria, pronunciando il rinvio a giudizio solo per taluna delle contestazioni. Relativamente ad altri addebiti veniva pronunciata sentenza di non luogo a procedere ed è di tali addebiti che qui ci si deve occupare.
In particolare, dopo lo svolgimento di consulenze medico legali e l’audizione degli imputati, era stata formulata una complessa imputazione a carico di H.C., con riferimento a tutti gli episodi descritti sub il capo a) della rubrica, per i reati di lesioni dolose aggravate ex artt. 582 e 583 c.p., laddove i pazienti erano sopravvissuti, e di omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p., nei casi in cui invece vi era stato il decesso come conseguenza dell’intervento chirurgico.
La tesi accusatoria partiva dalla premessa che, in via generale, era individuabile l’elemento materiale del reato di lesioni in ogni trattamento chirurgico in quanto caratterizzato da un taglio effettuato con il bisturi sulla cute del paziente ma che l’ipotesi criminosa, nella quasi totalità degli interventi chirurgici, era scriminata dal consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p. ad effettuare l’intervento. Per la concreta configurabilità della esimente il consenso deve però essere libero e dato in forma consapevole, avendo piena conoscenza il paziente dei rischi dell’intervento, e non può valere nel caso in cui comporti di fatto una diminuzione permanente della integrità fisica o comunque atti di disposizione vietati dalla legge, in violazione dell’art. 5 c.c.
Nei casi indicati al capo a), secondo l’impostazione accusatoria, sarebbe mancato il consenso validamente prestato. Inoltre, la prova del dolo dell’H., cioè della sua consapevolezza che l’intervento chirurgico avrebbe cagionato una non necessaria menomazione dell’integrità fisica del paziente, sarebbe ricavabile dalle accennate anomalie delle scelte chirurgiche e dalla sua nota capacità tecnica che dimostrerebbe come questi abbia volutamente operato anche nelle situazioni in cui sapeva bene che secondo le regole della scienza medica non avrebbe dovuto intervenire o avrebbe dovuto farlo con modalità diverse e meno invasive.
Nel caso indicato al capo b), i PM avevano contestato, invece, ai sanitari H., C., L.C., I., M.e L. il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p. in danno della paziente C. D’A., individuando i seguenti profili di colpa: non avere eseguito con particolare diligenza e prudenza la procedura laparoscopica e non avere convertito l’intervento per via laparatomica, cosi creando complicazioni iatrogene da lesioni viscerali (nei confronti dei medici L.C. e M., che avevano eseguito il primo intervento); non avere monitorato la sepsi di origine addominale, che veniva trattata in modo inadeguato anche dopo l’indagine microbiologica effettuata solo in data 14.8.2001, così cagionando la morte della D’A. in data 20.9.2001 per insufficienza multiorgano secondaria a shock settico (nei confronti dell’ H. e degli altri componenti della equipe, che aveva operato per quattro volte la D.A.).
Ulteriore contestazione per il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p. era formulata, al capo d), a carico dei sanitari H., L.C., Lirici, A., I. e D.A. in relazione al decesso della paziente I.A., morta dopo due interventi chirurgici.
H., I. e D.A., infine, erano riguardati da addebiti per il reato di falso ideologico ex art. 479 c.p., in relazione ad annotazioni che si assumevano false sulle cartelle cliniche relative alla sunnominata paziente I.A.
Il Gup con la sentenza in data 13 dicembre 2006, per tali addebiti, pronunciava sentenza di non luogo a procedere.
Relativamente agli addebiti di cui al capo a), il Gup riteneva di dover escludere la sussistenza del dolo prospettato dall’accusa per fondare le contestazioni. Il Gup affrontava la questione se possa ravvisarsi il dolo nella condotta del sanitario che abbia operato un paziente in assenza di un consenso da questi ritualmente prestato e conclude nel senso che il dolo potrebbe essere ritenuto sussistente solo nel caso in cui il sanitario abbia agito nella consapevolezza che il suo intervento avrebbe prodotto una non necessaria menomazione dell’integrità fisica o psichica del paziente.
Da queste premesse, il Gup, nell’escludere il dolo nei termini suddetti, per taluno degli episodi, riqualificati ex art. 590 c.p., pronunciava sentenza di non luogo a procedere per mancanza di querela, per altri, invece, pronunciava sentenza di non luogo a procedere per essere i fatti non punibili ex art. 50 c.p., ravvisandosi all’evidenza un consenso dei pazienti liberamente e ritualmente prestato.
Relativamente agli addebiti di cui ai capi b), d) ed e), il Gup pronunciava sentenza di non luogo a procedere per insussistenza dei fatti.
Con riferimento al capo b) il Gup, con riferimento ai due sanitari ( L.C. e M.) che avevano eseguito il primo intervento, riteneva che non erano addebitabili ai medesimi le plurime lesioni delle anse intestinali sul rilievo che le stesse rappresenterebbero un rischio sempre possibile negli interventi compiuti con la tecnica laparoscopica. Ad analoga conclusione perveniva con riferimento al contestato addebito della mancata conversione della laparoscopia in laparotomia, alla luce della considerazione che tale intervento può essere disposto solo quando si ha coscienza dell’avvenuta lesione, il che era da escludere nel caso in esame in presenza di “segni aspecifici”.
Il giudicante escludeva i profili di colpa dei sanitari anche nel trattamento medico post operatorio, con particolare riferimento al trattamento della peritonite diffusa e dello stato settico, che condussero a morte la D.A.. Sul punto, il giudicante dato atto della gravità della situazione, determinata dalla diminuita capacità di resistenza in cui era venuta a trovarsi la D.A., riteneva che l’antibiotico somministrato a far data dal 14 agosto(il “Tazocin”), pur non essendo quello individuato dai periti come il più adatto (“Targosid”), era anche indicato per le infezioni intraddominali e comunque, ai fini della configurabilità del nesso causale, mancava il cd. giudizio controfattuale, cioè la ragionevole certezza che se fosse stato somministrato l’antibiotico indicato dai consulenti del PM, l’infezione sarebbe stata debellata.
Infine, con riferimento alla infezione da candida albicans, rilevata al momento del ricovero della D.A. presso il Policlinico Gemelli, il giudicante riteneva la questione di poco rilievo attesa l’impossibilità di indicare con certezza il momento in cui l’infezione comparve, prospettando anche la possibilità che la stessa poteva essere insorta anche soltanto nella fase terminale quando la paziente era stata ricoverata al Gemelli.
La parte civile censura la sentenza nella parte in cui ha dichiarato il non luogo a procedere in ordine al reato di omicidio colposo in danno di D.A. Concetta perché il fatto non sussiste.
La ricorrente articola tre motivi.
Con il primo lamenta la manifesta illogicità della motivazione laddove esclude i profili di colpa dei sanitari ( L.C. e M.) che eseguirono il primo intervento di laparoscopia sostenendo che il giudicante avrebbe travisato le conclusioni dei consulenti tecnici del PM.
Con l’espressione “segni aspecifici” i consulenti del PM avevano inteso riferirsi ai sintomi post-operatori e non già a quelli riscontrabili nel corso dell’operazione chirurgica.
Con il secondo motivo si prospetta un ulteriore profilo di illogicità della motivazione nella parte in cui erano stati esclusi i profili di colpa dei sanitari anche nella fase del trattamento post-operatorio.
La decisione era censurabile sotto i seguenti profili:
– mancata valutazione del gravissimo ed ingiustificabile ritardo con cui furono compiuti i necessari e prescritti accertamenti diagnostici ( emocolture, tamponi delle ferite), tenuto conto che il primo intervento chirurgico, che aveva determinato le plurime lesioni delle anse intestinali risaliva al 24 luglio 2001 e che, nonostante l’ evidenza di un conseguente quadro clinico di infezione addominale, solamente dopo la consulenza del medico internista del 14 agosto, veniva eseguita in data 16 agosto una emocoltura ed una coltura del tampone delle secrezioni della ferita chirurgica;
– omessa valutazione delle conseguenze derivanti da tale ritardo diagnostico che comportando anche il ritardo nella somministrazione dell’antibiotico, aveva reso inutili i successivi interventi chirurgici, come attestato dai periti di ufficio, i quali avevano evidenziato che in presenza di flogosi, i tessuti della paziente non avrebbero mai potuto “tenere” e sarebbe stato quindi sempre necessario reintervenire;
– omessa considerazione da parte del giudicante della circostanza che nell’arco temporale ( 25 luglio- 20 agosto) nel corso del quale la D.A. era stata sottoposta ad ulteriori quattro interventi chirurgici, alla stessa erano state somministrate esclusivamente delle inutili cefalosporine;
omessa valutazione della circostanza che in data 24 agosto inspiegabilmente i sanitari avevano deciso di sospendere la somministrazione del Tazocin, che aveva determinato un decremento della leucocitosi, sostituendolo con il Glazidim, verso cui i ceppi precedentemente isolati presentavano una resistenza, come emerge dalle conclusioni dei consulenti del PM;
– erroneità delle decisione con riferimento alla ritenuta insussistenza del nesso causale tra condotta omissiva (consistita nella mancata somministrazione dell’antibiotico indicato) e la morte della paziente. Sul punto il giudicante aveva ritenuto l’idoneità dell’antibiotico in concreto somministrato ( il Tazocin) e soprattutto l’impossibilità scientifica di affermare ” con elevato grado di credibilità razionale” che, ove fosse stato assunto altro antibiotico la paziente si sarebbe salvata. Tale erronea conclusione, concretizzatasi nella erroneità del giudizio controfattuale, prescindeva dalla valutazione dell’ingiustificabile ritardo con il quale venne somministrato l’unico antibiotico rivelatosi utile per la paziente, dal quale era conseguita la necessità di sottoporre la donna ad ulteriori quattro interventi chirurgici, che avevano determinato il venir meno delle capacità di resistenza della vittima, menzionato nella stessa sentenza. In conclusione, sostiene la ricorrente che, la serie di errori e di omissioni da parte dei sanitari (ritardi nelle analisi, nella somministrazione degli antibiotici mirati e più in generale nel monitoraggio e nella terapia della sepsi addominale) contribuì con altissimo grado di probabilità logica a cagionare la morte della paziente.
Con il terzo motivo lamenta la manifesta illogicità della sentenza, anche sotto il profilo della contraddittorietà, in ordine alle valutazioni compiute con riferimento alla infezione da candida albicans.
La decisione, sostiene la ricorrente, è censurabile sotto i seguenti profili:
-carenza di motivazione, laddove il giudicante erroneamente tralascia di considerare che l’accertata infezione era riconducibile eziologicamente alla condotta omissiva dei medici, che non avevano predisposto alcuna terapia profilattica per prevenire una delle più comuni complicanze settiche delle operazioni infra-addominali. In particolare, di non avere somministrato alla D.A. una terapia a base di Fluconazolo (o di eventuale altro farmaco di analoga efficacia), come suggerito dalla migliore scienza medica;
-illogicità della motivazione con riferimento al momento di insorgenza della infezione, dovendo ritenersi certo che la candidosi venne contratta nell’Ospedale San Giovanni e non nella fase terminale durante il ricovero presso il policlinico Gemelli, essendo pacifico che fin dal primo prelievo effettuato al Gemelli il giorno stesso del ricovero( 14 settembre) era presente la candida su tutti i campioni prelevati, sintomatica di una sepsi ormai diffusa in tutto l’organismo della D.A. e, pertanto, incompatibile con la ipotesi sostenuta in sentenza.
Si sostiene, infine, che la responsabilità della morte della D.A. è ascrivibile a tutti i medici che ebbero in cura la donna nel suo ricovero al San Giovanni, ivi compreso il dott. H. che, successivamente all’intervento compiuto, ancorché in ferie, si manteneva, per sua stessa ammissione, comunque in contatto con il reparto da lui diretto, recandovisi a giorni alterni, gravando anche sullo stesso l’obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche fase post-operatoria.
Il Procuratore della Repubblica di Roma censura la pronuncia liberatoria del Gup, relativa al capo a).
Con il primo motivo contesta la ricostruzione del consenso informato operata dal giudicante, evidenziando che la mancanza del consenso del paziente o l’invalidità del consenso medesimo determinerebbe la configurabilità del dolo.
Nella specie, si sostiene, si verterebbe in ipotesi caratterizzate da consenso invalidamente prestato, attraverso l’utilizzo di moduli prestampati [il cui contenuto è trascritto in ricorso] del tutto generici e non contenenti alcuna informazione sulle patologie ed i rispettivi interventi. Secondo l’impostazione del ricorrente, il Gup avrebbe fatto ricorso ad una concezione riduttiva del consenso del paziente, identificandolo erroneamente con quello di cui all’art. 50 c.p, mentre lo stesso asserisce in realtà alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, oltre che al diritto al rispetto della propria integralità corporale, quale espressione dei diritti alla libertà personale ed alla salute proclamati inviolabili dagli arti 13 e 32 della Costituzione. La pronuncia sarebbe, pertanto, erronea a manifestamente illogica laddove dichiara non luogo a procedere per mancanza di querela con riferimento agli episodi relativi ai punti 1, 2,5,7,8 e 10 perché qualificati i fatti come previsti dall’art. 590 c.p. l’azione non doveva essere iniziata per mancanza di querela e, con riferimento ai casi di cui a punti 6 e 9, non luogo a procedere per essere i fatti non punibili ex art. 50 c.p., ravvisandosi un consenso dei pazienti liberamente e ritualmente prestato.
Con riferimento a tali due ultimi episodi, che hanno riguardato i pazienti B. (ricoverato con diagnosi di carcinoma gastrico e sottoposto ad intervento chirurgico nel corso del quale si procedeva alla scelta di allargamento del campo operatorio con l’asportazione in blocco del pezzo comprendente moncone gastrico, colon traverso, milza coda del pancreas) e C. ( ricoverato con la diagnosi di carcinoma della colecisti e sottoposto a duodenocefalopancreasectomia e mesoepatectomia), si sostiene che la sottoscrizione di moduli, in cui non viene indicata la patologia ed il tipo di intervento ( in entrambi casi definito sperimentale dall’ imputato H. e tale ritenuti dal giudice) non può essere ritenuto di per sé sufficiente a fornire la prova del consenso e della adeguata informazione.
Anche l’affermazione del giudicante, secondo la quale in entrambi i casi si tratterebbe di interventi con caratteristiche sperimentali ad alto rischio, posti nel disperato tentativo di migliorare la situazione del paziente, è sottoposta a critica, sul rilievo che tale conclusione sarebbe stata contraddetta dagli esiti delle consulenze disposte dal PM e dal giudice, nelle quali veniva ritenuta non condivisibile la scelta di allargamento del campo operatorio. Proprio la natura sperimentale di tali interventi avrebbe richiesto una ampia ed esaustiva informazione della patologia e sulle scelte terapeutiche, spettando al paziente il diritto di scegliere tra una possibile terapia palliativa ed un intervento estremo e/o sperimentale. Essendo il consenso viziato, nessun onere probatorio incombeva al pubblico ministero, come, invece, sostenuto in sentenza, circa la consapevolezza o meno dei pazienti, all’atto della firma del modulo, in ordine alla prestazione del consenso.
Con particolare riferimento al caso C. , il giudicante illogicamente non avrebbe tenuto alcun conto delle dichiarazioni rese dal figlio del paziente in sede di sommarie informazioni testimoniali in merito a quanto riferitogli dal dr. H. circa la patologia di cui soffriva il padre ( neoplasia al pancreas, che non venne invece mai accertata, ma che giustificò l’intervento di duodenocefalopancreasectomia). Parimenti, il giudicante non avrebbe tenuto conto che il modulo sottoscritto dal paziente in data 11.5.2000 aveva riferimento ad un intervento laparascopico mentre il C. venne operato il 14.5.2000 per via laparatomica. In entrambi i casi, comunque, il consenso informato, anche nella ipotesi di riconducibilità delle fattispecie a quelle di omicidio colposo, non avrebbe avuto efficacia scriminante, in quanto risulterebbe viziato dallo stesso comportamento dell’agente.
Con il secondo motivo si lamenta l’erroneità e l’illogicità della decisione in ordine all’elemento psicologico del reato con riferimento ai casi di cui ai nn. 1, 2, 5, 7, 8, e 10 Si sostiene che gli errori o meglio gli “orrori” indicati ed analizzati dai periti di ufficio non possono essere scaturiti da una erronea rappresentazione della realtà bensì da una scelta ben precisa adottata dal dr. H. e dallo stesso posta in essere con condotta dolosa, per fini diversi dalle esigenze terapeutiche tese a perseguire il bene del paziente (sperimentazioni di tecniche nuove, esercitazioni anche divulgative… comunque ininfluenti ai fini della prova, trattandosi di dolo generico) in violazione delle norme penali e dei più elementari doveri deontologici. In particolare, con riferimento agli interventi di duodenocefalopancreatomia, i periti erano stati tutti concordi nell’affermare che non è usuale sottoporre a tale tipo di intervento, che è il più complesso di tutta la chirurgia addominale, gravato da una alta mortalità e morbilità, un paziente senza avere un riscontro istologico di malignità e senza segni clinici che possano far sospettare un carcinoma del pancreas (come nei casi A., P., e S.). La condotta posta in essere dai prevenuti rientrerebbe, pertanto, nella fattispecie di cui all’art. 582 c.p., avendo le parti offese riportato a seguito degli interventi lesioni gravissime consistenti, oltre che nei postumi rilevati, anche in una inutile e consapevole mutilazione dell’Integrità fisica, con demolizione totale e/o parziale di organi vitali.
Il capo B) del ricorso censura invece la pronuncia liberatoria del Gup non riferimento al reato di falso, contestato al capo E della rubrica, ex artt. 110, 479 c.p. al primario del reparto ed agli altri medici chirurghi del medesimo reparto, che nel disporre la dimissione di A. I. dall’ospedale in data 8.8.2001 davano atto che la ferita chirurgica era in stato di ” lieve e parziale deiscenza”, contrariamente al vero, risultando dalla cartella clinica del Policlinico Umberto I, dove la paziente veniva ricoverata nella stessa giornata con la diagnosi di peritonite e sottoposta ad ulteriore intervento chirurgico, che la ferita mediana era “ampiamente deiscente con erniazione delle anse intestinali fino al piano cutaneo”.
Il giudicante, in proposito, riteneva che la descrizione della ferita è un tipico giudizio, in quanto non si limita a riferire il fatto ma descrive la ferita applicando alla descrizione delle conoscenze tecnico scientifiche che non possono essere affette da falsità ideologica, in quanto non contengono alcuna attestazione di fatti.
La decisione, ad avviso del ricorrente, non terrebbe conto del fatto che la valutazione, in realtà, è un giudizio tecnico che presuppone necessariamente un’attività del pubblico ufficiale che attesta di aver visitato il paziente e di aver constatato che la ferita chirurgica è tale da consentire le dimissioni.
Si prospetta, sotto altro profilo, la violazione del principio del contraddittorio con pregiudizio per il PM nella trattazione dei casi A. e D.A., avendo il giudice impedito alla pubblica accusa la formulazione di domande nel corso dell’udienza preliminare, facoltà prevista dall’art. 422 c.p..
Sotto altro profilo ancora, la parte ricorrente si duole della illogicità e della carenza della motivazione con riferimento ai rilievi contenuti nelle note prodotte dal PM e dai difensori di parte civile in relazione al casi D.A. ed A..
Con riferimento al primo caso, il Procuratore della Repubblica ricorrente dichiara di fare proprie i motivi di ricorso della parte civile.
Per quanto concerne il secondo episodio, ai sanitari era stato contestato il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p.
L’A. era stata ricoverata all’ospedale San Giovanni con la diagnosi di “laparocele strozzato”. Ai sanitari L.C. e L.( quali chirurghi del primo intervento di plastica del laparocele per occlusione intestinale del 13 luglio 2001) e a L.ed A.( quali chirurghi del secondo intervento di esplorazione addominale per peritonite ed ostruzione intestinale del 15.7.2001) era stato contestato di avere sottoposto la paziente ai citati interventi senza adeguata giustificazione sotto il profilo delle indicazioni e di avere omesso di valutare adeguatamente lo stato della ferita e le complicanze post operatorie fra il 15 luglio e l’8 agosto 2001, data in cui la paziente veniva intempestivamente dimessa in stato febbrile ed in gravissime condizioni di salute, tanto che, ricoverata dopo qualche ora all’ospedale Policlinico Umberto, veniva sottoposta a nuovo intervento chirurgico. Il giudicante , facendo proprie le conclusioni dei periti di ufficio, di segno contrario rispetto a quelle dei periti del PM, escludeva ogni profilo di colpa ritenendo che entrambi gli interventi erano stati il frutto della scelta più corretta secondo la più autorevole letteratura medica. In relazione all’altro profilo di colpa( l’omessa valutazione delle complicanze post operatorie e l’intempestiva dimissione), la sentenza, pur dando atto che la dimissione della paziente fu effettivamente intempestiva, ma eziologicamente inefficace rispetto alla morte, affermava, conformemente alle conclusioni dei periti di ufficio, che, in assenza di accertamento della causa della morte, che potrebbe anche essere collegata all’infezione del sistema centrale, non riconducibile all’operato degli imputati, la condotta degli stessi doveva ritenersi svincolata dall’evento morte.
Il Procuratore della Repubblica censura tale decisione contestando nel merito le conclusioni dei periti. In particolare, si sostiene che entrambi gli interventi furono precipitosi e non sorretti da adeguate indagini preoperatorie che, in rapporto alle condizioni della paziente, avrebbero dovuto meglio indagare la eventuale esistenza di patologie non attinenti al versante addominale. Sotto tale profilo si pone in dubbio anche la diagnosi di “laparocele strozzato”, incompatibile con il videat del chirurgo che indicava il laparocele come riducibile e con altri dati emergenti dalla radiografia dell’addome. Si evidenziava altresì che lo stato febbrile della paziente e la presenza di vomito, che poteva essere di origini cerebrale e non addominale, avrebbero consigliato ulteriori approfondimenti sotto il profilo neurologico, tenuto conto degli antecedenti morbosi ( la donna era reduce da intervento per aneurisma cerebrale).
Inoltre i periti non avevano svolto alcuna considerazione in ordine alle osservazioni formulate dal consulente di parte circa le modalità di esecuzione tecnica del secondo intervento..
Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma propone appello avverso la citata sentenza , riportandosi alle argomentazioni elaborate dal PM.
Sono state ritualmente depositate memorie difensive nell’interesse dei dott.ri H., M.ed I..
In sintesi, i difensori del primo osservano: in via preliminare, l’inammissibilità della impugnazione del PG sotto due profili: impugnazione con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente prescritto; omessa specificazione dei motivi, essendosi lo stesso limitato a richiamare l’atto di impugnazione dei PM; inammissibilità del ricorsi dei PM, che si limiterebbero a proporre una diversa lettura dei fatti, anche con riferimento al reato p. e p. dall’art. 479 c.p.; nel merito, l’infondatezza di tutte le impugnazioni con riferimento alla pronuncia assolutoria del Gip in relazione ai reati di lesioni dolose ed omicidio preterintenzionale. I difensori sottolineano al riguardo che in nessuno dei casi esaminati è risultato il dissenso al trattamento medico chirurgico e, facendo riferimento alla sentenza della I Sezione di questa Corte del 29 maggio 2002, Volterrani -che sottolineava la legittimazione del medico a sottoporre il paziente al trattamento che giudica necessario per la salvaguardia della sua salute- escludono la configurabilità dell’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale, dal momento che tale ultima fattispecie in ambito di attività medica sarebbe ravvisabile solo ove il chirurgo procurasse ferite al corpo del paziente per gratuita malvagità o per odio personale nei suoi confronti. Premessa, pertanto, l’intrinseca legittimità penale dell’attività medico chirurgica, ove sussista l’indicazione terapeutica e, come nel caso in esame, l’asserita adeguatezza e correttezza di esecuzione, il risultato eventualmente infausto, non potrebbe essere ascritto alla responsabilità del medico, poiché esso sarebbe la conseguenza inevitabile della imperfezione dell’arte medica.
In ogni caso, nelle fattispecie in esame, secondo la difesa, sarebbe applicabile la scriminante dello stato di necessità in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o di altre ipotesi previste dalla legge, le quali possono rendere configurabili cause di giustificazioni diverse dal consenso dell’avente diritto, come anche riconosciuto dalla sentenza di questa Corte, Sezione Massimo. Si chiede il rigetto dei ricorsi anche con riferimento ai reati di omicidio colposo, ponendosi la sentenza impugnata in linea con la giurisprudenza della S.C. in relazione al nesso di causalità. In particolare viene citata la sentenza Lucarelli di questa Sezione ,del 25 maggio 2005, secondo la quale nella ricostruzione del nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento lesivo non si può prescindere dalla individuazione di tutti gli elementi concernenti la causa di tale evento lesivo, giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia è poi possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio contrafattuale..
I difensori di M.e di I., con riferimento al caso D.A., sostengono l’inammissibilità del ricorso del PM che si era limitato a richiamare quello della parte civile.
Nel merito, si afferma la manifesta infondatezza della censura in relazione alla valutazione compiuta dal giudicante in merito alla mancata conversione dell’intervento laparoscopico in laparatomia), essendo così inammissibilmente richiesto al giudice di legittimità di sostituire una valutazione in fatto diversa da quella del giudice di merito, peraltro, fondata su conformi conclusioni dei consulenti del PM.
Anche il riferimento alla analogia del caso D.A. con quello E. sarebbe inammissibile, tanto più che il dr. I. era stato assolto da quest’ultima imputazione con sentenza della Corte di Assise di Roma.
Infondate erano anche le censure in relazione alla conclusione liberatoria con riferimento alla fase post operatoria,che era stata fondata sulla conforme ricostruzione dei periti.
Il ricorso è inammissibile anche con riferimento al caso A. essendosi limitato il Procuratore della Repubblica a riproporre la tesi dei suoi consulenti tecnici, senza formulare alcuna critica alla sentenza del Gup. Lo stesso motivo vale anche per il reato di falso.
In via preliminare va dichiarata l’inammissibilità dell’appello proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di appello di Roma in quanto l’art. 428 c.p.p, come sostituito dall’art. 4 della L. 20 febbraio 2006 n. 46, ha soppresso la facoltà del PM di proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere.
Venendo al merito delle impugnazioni proposte dalla parte civile e dal Procuratore della Repubblica di Roma, va ricordato che la sentenza di non luogo a procedere, anche dopo le modifiche subite dall’articolo 425 c.p.p. a seguito della legge 16 dicembre 1999 n. 479, rimane prevalentemente una sentenza di natura processuale e non di merito, finalizzata ad evitare i dibattimenti inutili, e non ad accertare se l’imputato è colpevole o innocente. Ne deriva che il parametro di valutazione del giudice, cui è imposto di adottare la sentenza di non luogo a procedere “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio” (articolo 425, comma 3, c.p.p.), non è l’innocenza dell’imputato, ma l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio. Quindi, l’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi devono avere caratteristiche tali da non poter essere ragionevolmente considerate superabili in giudizio, con la conseguenza che, a meno che ci si trovi in presenza di elementi palesemente insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio per l’esistenza di prove positive di innocenza o per la manifesta inconsistenza di quelle di non colpevolezza, la sentenza di non luogo a procedere non è consentita quando l’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi acquisiti siano superabili in dibattimento ( v. in proposito, Sezione IV, 19 aprile 2007, parte civile Giganti ed altro in proc. Materia). La norma richiamata – che riecheggia la regola di giudizio prevista dall’art. 530 c.p.p. -conferma infatti quanto si è in precedenza espresso: Il parametro non é l’innocenza ma l’impossibilita’ di sostenere l’accusa in giudizio. L’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi devono quindi avere caratteristiche tali da non poter essere ragionevolmente considerate superabili nel giudizio. In altri e decisivi termini: lo scopo dell’udienza preliminare è quello di evitare dibattimenti inutili, e non quello di accertare la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Di tale che, il giudice dell’udienza preliminare deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato solo in presenza di una situazione di innocenza tale da apparire non superabile in dibattimento dall’acquisizione di nuovi elementi di prova o da una possibile diversa valutazione del compendio probatorio già acquisito; e ciò anche quando, come prevede espressamente l’articolo 425, comma 3, c.p.p., “gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”: tale disposizione altro non è, infatti, se non la conferma che il criterio di valutazione per il giudice dell’udienza preliminare non è l’innocenza, bensì – dunque, pur in presenza di elementi probatori insufficienti o contraddittori (sempre che appaiano destinati, con ragionevole previsione, a rimanere tali nell’eventualità del dibattimento)- l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio. Ne consegue che l’insufficienza o la contraddittorietà delle fonti di prova che legittima il proscioglimento ha quale parametro di riferimento la prognosi dell’inutilità del dibattimento, mentre deve essere escluso il proscioglimento in tutti i casi in cui tali fonti di prova si prestino a soluzioni alternative o aperte (Sezione IV, 8 novembre 2007, parte civile Biondo in proc. Castellano ed altro).
L’esame della sentenza impugnata dimostra che il giudice di merito non sempre si é attenuto in toto ai principi indicati, come emerge dalla circostanza che nella sentenza, eccetto che con riferimento al caso D.A. (di cui infra) alcuna valutazione prognostica viene fatta sulla possibilità di superare, nel dibattimento, l’insufficienza e la contraddittorietà del quadro probatorio e sulla idoneità dei ricordati elementi a sostenere l’accusa in giudizio.
Passando all’esame dei ricorsi, appare opportuno, per chiarezza espositiva, trattare, in primo luogo, quello proposto dalla parte civile G. – fatto proprio anche dal Procuratore della Repubblica di Roma- avverso quella parte della sentenza che ha dichiarato non doversi procedere per insussistenza del fatto con riferimento al reato di omicidio colposo nei confronti di C. D.A..
Nella fattispecie, il Gup, premette, innanzitutto la ricostruzione degli eventi, con l’indicazione dei plurimi interventi subiti dalla donna (ivi compreso il primo, durante il quale si verificava la lesione dell’ansa digiunale) e la descrizione sia del progressivo deterioramento delle condizioni di salute della paziente dal giorno della prima operazione (24 luglio) a quello delle dimissioni (14 settembre ) sia della infezione (Candida Albicans) diagnosticata all’ingresso del ricovero nell’altro ospedale, concludendo che il decesso, sopraggiunto in data 20 settembre, era riconducibile, secondo i risultati dell’autopsia, ad una sindrome da insufficienza multiorgano secondaria a shock settico conseguente a perforazione di una ansa digiunale di natura iatrogena.
Con riferimento al primo intervento, la sentenza afferma l’insussistenza dell’addebito mosso ai medici L.C. e M.(la mancata diligenza nell’esecuzione della laparoscopia e la sua mancata conversione in laparotomia) sul rilievo che la lesione dell’ansa digiunale costituirebbe una complicanza possibile indipendentemente dalla esecuzione dell’intervento.
Per quanto concerne l’altro profilo di colpa, attinente alla fase del trattamento post operatorio, da individuarsi secondo l’accusa, nel gravissimo ed ingiustificabile ritardo con cui furono compiuti i prescritti accertamenti diagnostici e, in generale, il monitoraggio e la terapia della sepsi addominale, mediante la somministrazione di inidoneo antibiotico, il giudicante afferma che “manca il cosiddetto giudizio controfattuale, cioè la ragionevole certezza che se fosse stato somministrato l’antibiotico specificato dai consulenti del PM l’infezione sarebbe stata debellata”.
Infine, con riferimento alla infezione diagnosticata alla D.A. all’ingresso del Policlinico Gemelli, nel quale era stata direttamente trasportata dall’altro Ospedale, la sentenza, richiamando le conclusioni dei periti del PM, afferma che, non essendo possibile indicare con certezza il momento in cui l’infezione era comparsa, non era possibile affermare la sussistenza del necessario nesso causale tra la condotta degli imputati e l’evento.
Le conclusioni, come sopra riportate, rendono evidente che la regola di giudizio utilizzata dal Gup è quella del dibattimento e non quella dell’udienza preliminare, non contenendo la sentenza alcuna valutazione prognostica sulla possibilità di superare, nel dibattimento, l’insufficienza e la contraddittorietà del quadro probatorio e sulla idoneità dei ricordati elementi a sostenere l’accusa in giudizio.
L’apprezzamento del merito da parte del giudicante si è, infatti, sviluppato secondo un canone, sia pur prognostico, di innocenza, trascurando la prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risultasse o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento.
Il mero riferimento letterale alla impossibilità di acquisizione nel dibattimento di ulteriori elementi, non rende, infatti, superabile l’erroneità dell’approccio alla soluzione adottata, laddove il giudicante afferma che la sentenza di proscioglimento è fondata sulla incertezza del nesso causale tra la mancata somministrazione dell’antibiotico ed il decesso, facendo così evidente riferimento non alla regola di giudizio dell’udienza preliminare ma a quella del giudizio di merito. A ciò aggiungasi che la sentenza, pur dando atto della progressiva e costante degenerazione della situazione clinica e della circostanza che l’esame culturale del tampone della ferita fu effettuato per la prima volta dal medico di guardia solo in data 14 agosto, non affronta in alcun modo il problema eventualmente derivante da tale ritardo diagnostico.
Consegue alle considerazioni svolte l’annullamento in parte qua della sentenza impugnata con rinvio al giudice competente.
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla valutazione compiuta dal giudicante in relazione al reato di omicidio colposo in danno di A. I., sottoposta ad intervento di laparotomia con plastica del laparocele a seguito di diagnosi di occlusione intestinale con laparocele strozzato.
Anche in questo caso, l’esame della sentenza impugnata dimostra che il giudice di merito non si è attenuto ai principi indicati.
La sentenza riporta le conclusioni dei periti del P.M., i quali avevano ritenuto che entrambi gli interventi eseguiti erano privi di indicazione, ed il secondo era errato anche come concezione tecnica, ma esclude la sussistenza degli addebiti richiamando le conclusioni dei periti di ufficio, i quali avevano affermato che la condotta degli imputati era causalmente svincolata dall’evento morte.
Per quanto concerne l’altro profilo di colpa (l’omessa valutazione adeguata della complicanza post-operatorie e la intempestiva dimissione dall’ospedale), il giudicante, pur dando atto della obiettiva intempestività delle dimissioni, esclude però la sussistenza della prova che tale dimissione provocò il decesso della donna, avvenuto undici giorni dopo. Ciò sul rilievo che la causa della morte, in assenza dell’autopsia, non era stata accertata e poteva essere collegata ragionevolmente anche alla infezione del sistema nervoso, estranea all’operato degli imputati.
I citati passaggi della sentenza dimostrano l’erroneità dell’approccio alla soluzione adottata nella sentenza impugnata, che affronta le questioni senza soffermarsi sulla idoneità dei ricordati elementi a sostenere l’accusa in giudizio ma adottando la regola di giudizio utilizzata nel dibattimento.
Anche per tale capo la sentenza va annullata con rinvio al giudice competente.
Passando alle altre questioni prospettate nel ricorso del Procuratore della Repubblica, il primo tema da affrontare, in ordine logico sistematico, è quello della configurabilità dell’omicidio preterintenzionale nel caso di attività medico chirurgica, al quale è strettamente connesso quello dell’ambito di rilevanza del consenso del paziente.
Sotto il primo profilo, come è noto, in linea generale, per la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale è necessario che l’evento morte consegua ad un comportamento volontario diretto ad aggredire l’altrui persona sì da produrgli, nelle intenzioni dell’agente, una percossa o una lesione. In altri termini, l’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale consiste nella volontarietà delle percosse o delle lesioni alle quali consegue la morte dell’aggredito, come evento non voluto, neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione del rischio (cfr. Sezione V, 13 maggio 2004, Tihenea ed altro; Sezione V, 7 febbraio 2002, Sorvillo ed altro; Sezione V, 27 ottobre 2000, Sillitti; Sezione I,10 gennaio 2000, Saetta), giacché ove l’evento mortale fosse stato previsto anche solo come probabile, con accettazione del rischio del relativo accadimento, l’agente ne risponderebbe a titolo dì omicidio volontario (articolo 575 c.p.), sotto il profilo del dolo indiretto od eventuale (tra le tante, v. anche Sezione I, 18 dicembre 2003, Venturini; Sezione I, 2 ottobre 2003, Pepe; Sezione I, 13 maggio 2003, Rossini ed altri; Sezione I, 20 maggio 2001, Milici; Sezione I, 7 luglio 2000, Falorni; nonché, efficacemente, Sezione I, 19 dicembre 2002, Fortunato ed altro, per la quale l’omicidio preterintenzionale si differenzia da quello volontario perché vi fa difetto la volontà omicida, non solo sotto la forma del dolo diretto, ma anche sotto quella del dolo alternativo, indiretto od eventuale, conseguendone che sussisterà l’omicidio volontario, e non quello preterintenzionale, nel caso in cui la condotta dell’agente sia stata tale da dimostrare, alla stregua delle regole della comune esperienza, la consapevole accettazione anche della sola eventualità che da detta condotta potesse derivare la morte del soggetto passivo).
La ricollegabilità dell’omicidio preterintenzionale ad una condotta materiale dolosamente indirizzata a commettere i reati di percosse o di lesioni, esclude, ad avviso di questo Collegio, la fondatezza della tesi, pure divisata in giurisprudenza, secondo cui il medico chirurgo, il quale, in assenza di necessità ed urgenze terapeutiche, abbia sottoposto il paziente ad un intervento operatorio di più grande entità, rispetto a quello meno cruento e comunque di lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da questi consentito, commetterebbe il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponderebbe (addirittura) del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni sia derivata la morte (v. in questi termini, Sezione V, 21 aprile 1992, Massimo)
Ritiene il Collegio che la tesi prospettata dalla sentenza Massimo non sia condivisibile ove si consideri, assorbentemente, che per configurare l’omicidio preterintenzionale sarebbe pur sempre necessario che il reato di lesioni volontarie sia stato commesso con il dolo diretto intenzionale (“atti diretti a commettere…”): ciò che è francamente insostenibile nei confronti di un sanitario il quale, salve situazioni anomale e distorte (sulle quali v. infra), si trova ad agire, magari erroneamente, ma pur sempre con una finalità curativa, che è concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni ricostruito nei termini di cui si è detto. In altri e decisivi termini, deve escludersi l’omicidio preterintenzionale proprio perché non è possibile sostenere che il medico, il quale agisca in assenza di consenso espresso del paziente, sia mosso dalla consapevole intenzione di provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa e, quindi, dalla consapevole intenzione di porre in essere “atti diretti a” commettere il reato di cui all’articolo 582 c.p..
Il Collegio condivide, invece, l’orientamento espresso dalla successiva sentenza, Sezione IV, 9 marzo 2001, Barese, che, pur non escludendo in assoluto ( per es. nei casi in cui la morte consegua ad una mutilazione procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito mortale, per scopi esclusivamente scientifici) la possibilità di ipotizzare la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale, richiede, perché possa ritenersi verificata questa ipotesi, l’accertamento della esistenza di un dolo dell’agente che possa essere qualificato dolo diretto e non solo eventuale e intenzionalmente orientato a provocare la lesione della integrità fisica del paziente, in mancanza, il delitto può essere ritenuto colposo, ove ne sussistano i presupposti.
Ciò premesso, venendo a questo punto alla problematica del consenso informato del paziente, ne vanno piuttosto chiariti il contenuto e la rilevanza ai fini dell’apprezzamento della condotta del sanitario.
Per quanto concerne la questione del consenso, va, innanzitutto, rilevato che il consenso, per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere “informato”, cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l’indicazione della gravità degli effetti del trattamento.
Con riferimento all’ambito di rilevanza del consenso, affrontato più volte anche in sede civile (v., da ultimo, Sezione III, 14 marzo 2006, n. 5444), questo Collegio condivide l’impostazione secondo la quale dalla “autolegittimazione” dell’attività medica non può trarsi la convinzione che il medico possa, di regola ed al di fuori di taluni casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p.) intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente.
In tal senso, la sentenza pronunciata da questa stessa Sezione in data 11 luglio 2001, Firenzani, condivisibilmente sottolinea che la legittimità di per sé dell’attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce un presupposto di liceità del trattamento medico chirurgico. Il consenso asserisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato, che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invece, aderente ai principi dell’ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive, queste, derivanti dall’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano, di regola, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi. Il principio è stato ribadito di recente dalla sentenza della Sezione VI, 14 febbraio 2006, Caneschi, secondo la quale l’attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità la manifestazione del consenso del paziente, che non si identifica con quello di cui all’art 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento.
Il consenso informato ha, come contenuto concreto, la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale ( v. Cass. civile, Sezione III, 4 ottobre 2007, n. 21748). Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall’art. 32 Costituzione (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di disciplina della relazione medico malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario (cfr., del resto, anche Sezione IV, 4 luglio 2005, PM in proc. Da Re, dove in linea con questi principi si affronta la questione del “rifiuto” da parte del paziente del trattamento sanitario).
E però dal rilievo così attribuito al consenso del paziente non può farsi discendere la conseguenza che dall’intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido si possa sempre profilare la responsabilità a titolo di omicidio preterintenzionale, in caso di esito letale, ovvero a titolo di lesioni volontarie.
Ciò per le ragioni sopra evidenziate del contenuto dell’elemento soggettivo proprio di tali reati, che è di norma non configurabile rispetto all’attività del medico (se non nelle limitate ipotesi di cui si è detto e di cui qui difettano, in fatto, già nella stessa prospettazione delle parti, i presupposti).
In altri termini, venendo ai casi in esame, pur ammettendo che il consenso sia stato prestato in maniera grossolana e non satisfattiva, giacché i moduli – il cui contenuto è stato trascritto nei ricorsi- paiono all’evidenza oltre modo generici e non in grado di dimostrare l’avvenuta consapevolezza del destinatario consenziente, non può però condividersi, in linea di principio, per quanto sopra esposto, l’assunto che vorrebbe inquadrare i fatti sub specie dei reati di lesioni volontarie e di omicidio preterintenzionale.
Vale in proposito quanto sopra esposto allorché si è evidenziato che il consenso eventualmente invalido perché non consapevolmente prestato non può ex se importare l’addebito a titolo di dolo.
Qui, del resto, non paiono apprezzarsi – né sono evidenziaste sul punto palesi illogicità motivazionali, sconfinanti nel travisamento del fatto- le eccezionali condizioni in forza delle quali come supra evidenziato potrebbe fondarsi un addebito a titolo di dolo a carico del sanitario.
Corretta in questa prospettiva è la soluzione liberatoria per i fatti improcedibili derubricati ex articolo 590 c.p, con il conseguente rigetto del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica di Roma su tale capo.
Diverso discorso deve farsi per gli addebiti originariamente contestati come omicidio preterintenzionale (v. omicidi B. e C., rispettivamente nn. 6 e 9 , capo a) della rubrica), che il giudicante ha dichiarato non procedibili per la presenza del consenso informato.
L’inidoneità del consenso di che trattasi impedisce, all’evidenza, di invocare qui correttamente la scriminante e impone un nuovo giudizio sui fatti, che vanno, in coerenza con quanto esposto, correttamente qualificati e valutati come omicidi colposi. Invero, come in altre occasioni rilevato ( v. Sezione IV, 6 marzo 2006, P.G. Trento in proc. Casotti ed altri, ed i riferimenti in essa contenuti), già sotto la vigenza del precedente codice di rito, si era ritenuto che la Corte di cassazione, in quanto organo giusdicente cui è attribuito il potere della uniforme interpretazione del diritto, una volta che i motivi del ricorso abbiano investito la definizione giuridica del reato anche se sotto profili di diritto non dedotti dal ricorrente, deve attribuire al fatto l’esatta definizione giuridica. L’assunto è rimasto fermo sotto la vigenza del nuovo codice, essendo stato stabilito (v. sentenza sopra citata) che, salvo il divieto di reformatio in peius, il principio generale di cui all’art. 521 c.p.p (potere del giudice di dare al fatto una definizione diversa da quella enunciata nella imputazione) vale anche nel giudizio di legittimità. Tale facoltà di riqualificazione riguarda, oltre al fatto per come descritto nella imputazione, anche il fatto per come accertato nella sentenza impugnata, con la conseguenza che la correlazione tra l’imputazione e la decisione può ridursi alla sola identità dell’episodio storico dedotto nel processo, quando il giudice della impugnazione constati che, in base agli accertamenti compiuti nella sentenza impugnata, il medesimo episodio storico doveva essere diversamente rubricato. Alla luce di tale principio, ritiene il Collegio che la ricostruzione effettuata dai giudici di merito porti a concludere, con riferimento ai reati di cui al capo a) della imputazione, numeri 6 e 9, (rispettivamente contestati come omicidio preterintenzionale nei confronti dei pazienti B. e C.) che non si tratti di delitti di cui all’art. 584 c.p. ma di quello di omicidio colposo previsto dall’art. 589 dello stesso codice.
In particolare, con riferimento al caso B., già il giudicante aveva opportunamente rilevato, senza trame, però, le dovute conseguenze, che i periti di ufficio avevano concluso che la scelta dell’allargamento del campo operatorio ( l’intervento a cui fu sottoposto il paziente, affetto da un tumore dello stomaco, fu ampiamente demolitivo, in quanto comportò l’asportazione in blocco del pezzo comprendente moncone gastrico, colon traverso, milza, coda del pancreas, lobo epatico di sinistra) non era condivisibile ravvisandosi nella fattispecie un quadro di over treatment, data l’asportazione chirurgica di organi viciniori a quelli affetti dalla patologia ed estranei alla stessa.
Né tale conclusione muterebbe laddove si volesse sostenere che l’Intervento de quo sarebbe stato assistito da un consenso informato del paziente.
La conclusione, infatti, anche a voler ammettere la prestazione di un consenso informato, non sarebbe diversa in termini di possibile ravvisabilità della colpa: ciò che rileva nella fattispecie, infatti, al di là della qualificazione del fatto prospettata dai ricorrenti, è la posizione di garanzia penalmente rilevante, ricoperta dagli imputati, ex articolo 40, comma 2, c.p., in funzione del potere giuridico esistente in capo agli stessi, di tutelare la salute e la vita del paziente e di impedire gli eventi letali.
Per quanto sopra esposto in merito alle conclusioni svolte dai periti di ufficio e tenuto conto dei principi sopra richiamati in tema di sentenza ex art. 425 c.p.p, che sono stati violati dal giudicante laddove ha applicato la regola di giudizio del dibattimento, la sentenza va annullata in parte qua ed il giudice di merito dovrà attenersi ai principi sopra indicati, accertando, se ne ricorrano i presupposti, la sussistenza della colpa, la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, nonché la violazione della regola cautelare che abbia cagionato l’evento dannoso.
Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riferimento al caso C., il paziente ricoverato con la diagnosi di carcinoma della colecisti e sottoposto a duodenocefalopancreasectomia e mesoepatectomia, ed in seguito deceduto.
Lo stesso giudicante riporta nella sentenza le conclusioni dei periti di ufficio e dei consulenti del PM- anche qui senza trarne le logiche conseguenze- secondo le quali l’intervento chirurgico non aveva alcun “senso oncologico” perché non poteva avere alcun effetto né quoad vitam, né quoad valetudinem e, dall’altro che, con ragionevole certezza o altissima probabilità fu proprio a cagione dell’intervento che si ebbe una contrazione del periodo di sopravvivenza del paziente.
La conclusione, infatti, anche a voler ammettere la prestazione di un consenso informato, non sarebbe diversa in termini di possibile ravvisabilità della colpa: ciò che rileva nella fattispecie, infatti, al di là della qualificazione del fatto prospettata dai ricorrenti, è la posizione di garanzia penalmente rilevante, ricoperta dagli imputati, ex articolo 40, comma 2, c.p., in funzione del potere giuridico esistente in capo agli stessi, di tutelare la salute e la vita del paziente e di impedire gli eventi letali.
Per quanto sopra esposto in merito alle conclusioni svolte dai periti di ufficio e tenuto conto dei principi sopra richiamati in tema di sentenza ex art. 425 c.p.p, che sono stati violati dal giudicante laddove ha applicato la regola di giudizio del dibattimento, la sentenza va annullata in parte qua ed il giudice di merito dovrà attenersi ai principi sopra indicati, accertando, se ne ricorrano i presupposti, la sussistenza della colpa, la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, nonché la violazione della regola cautelare che abbia cagionato l’evento dannoso.
Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riferimento al caso C., il paziente ricoverato con la diagnosi di carcinoma della colecisti e sottoposto a duodenocefalopancreasectomia e mesoepatectomia, ed in seguito deceduto.
Lo stesso giudicante riporta nella sentenza le conclusioni dei periti di ufficio e dei consulenti del PM- anche qui senza trarne le logiche conseguenze- secondo le quali l’intervento chirurgico non aveva alcun “senso oncologico” perché non poteva avere alcun effetto né quoad vitam, né quoad valetudinem e, dall’altro che, con ragionevole certezza o altissima probabilità fu proprio a cagione dell’intervento che si ebbe una contrazione del periodo di sopravvivenza del paziente.
Anche in tale caso valgono le considerazioni svolte in tema alla sussistenza/insussistenza, nel caso concreto, di un consenso informato ed, in ogni caso, della irrilevanza di quello eventualmente prestato, in presenza dell’addebito colposo e dell’esito letale dell’intervento.
In conclusione, ritiene il Collegio che l’ipotesi di accusa, come esplicitata nel capo di imputazione a), sub nn. 6 e 9, sia correttamente da interpretare come quella di omicidio colposo ( ex art. 589 c.p.).
La sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Roma, il quale dovrà verificare la riconducibilità delle fattispecie concrete a quella astratta individuata da questo Collegio.
L’impugnazione proposta dai PM di Roma deve, infine, essere rigettata anche nella parte in cui censura la pronuncia liberatoria del Gup in relazione al reato di falso, contestato al capo e) della rubrica, con riferimento al giudizio espresso dai sanitari nella cartella clinica della A. all’atto delle dimissioni della medesima dall’Ospedale. Ciò sulla base dell’assorbente considerazione che in tema di falso ideologico deve escludersi la sussistenza di una condotta punibile qualora il pubblico ufficiale sia stato chiamato ad esprimere un giudizio.
In tale evenienza, infatti, il pubblico ufficiale è libero anche nella scelta dei criteri di valutazione e la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che lo rappresenta non è destinato a provare la verità di alcun fatto. Invece, la falsità sarebbe configurabile se l’atto è diretto ad accertare accadimenti o, comunque, circostanze direttamente percepite dal pubblico ufficiale, senza che di esse debba essere fornito alcun apprezzamento, ed egli le riporti in modo non veridico nell’atto redatto (cfr. Cass., Sez. VI, 13 novembre 2003, Proc. gen. App. Palermo ed altri in proc. Oddo ed altri).
P.Q.M.
dichiara inammissibile l’appello proposto dal PG presso la Corte di appello di Roma; annulla la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui al capo a), nn. 6 e 9 nonché ai capi b) e d) della rubrica con rinvio al Tribunale di Roma. Rigetta nel resto il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma.